Neosassisti #2 - Il chiodo dell’Ivan


Estratto dall’articolo Il Chiodo dell’Ivan” pubblicato sull’Annuario di Alpinismo Europeo 2018 “Up 2019” edito da Versante Sud: https://www.versantesud.it/shop/up-2019/

 
Fotografia di Massimo Malpezzi

5:30. La sveglia suona implacabile. 
Silenzio nell’aria fresca nell’imminente autunno. 
Uno sfuggente bacio agli amori addormentati e via. 
Minuti automatizzati scorrono in un’abitudine sonnolenta mentre fuori le montagne si scrutano nell’immobilità del lago e il profumo degli alberi umidi ricorda l’infanzia. I pochi chilometri scorrono tra alberi e paesi tra l’antico e il vecchio.
A Como c’è più fermento. Non c’è più parcheggio, cazzo. Pazienza.
Il treno ha 10 minuti di ritardo, nessuna novità. Figure spettrali ciondolano nell’attesa, chi in giacca e cravatta, chi sporco di vernice, chi con uno zaino e una sigaretta appesa alle labbra. Un film muto senza sottotitoli dove dita battono convulsamente su schermi di tutte le dimensioni, nella droga tecnologica con cui ci si sforza di dimenticare il momento presente.
L’insopportabile stridio di freni, l’odore di bruciato e l’unto stantio di sedili opachi sono gli unici stimoli che risvegliano i sensi mentre, con un ultimo sguardo ai monti, il sipario cala in un sonno senza sogni.

Brusio, fermento e movimenti convulsi. Il treno ancora in movimento sta arrivando a Cadorna. Tutti sono già in piedi, e spingono per trovare uno spiraglio verso uscite ancora chiuse. Sguardi scocciati si posano sulla mia bici piegata, un ostacolo che sottrae decimi di secondo indispensabili per essere i primi a sedersi ad una scrivania tra mura di cemento. Aspetto. Le porte automatiche sbarrano carrozze ormai vuote dietro di me mentre lentamente spingo la bici verso l’uscita. Una coda di zombie scalpita in fila su un invisibile, ma inesorabile, nastro traportatore che entra nelle profondità della terra.
Fuori, la cacofonia metropolitana accoglie il ritorno alla luce, con i rumori e odori che si perdono nel cielo grigio. Una signora anziana attraversa la strada tra clacson che la sollecitano a muovere le stanche gambe, lo sguardo rassegnato per ciò che non è in grado di comprendere. Un rampante giovane in giacca e cravatta mi guarda scocciato perché a passo d’uomo procedo in bici sul marciapiede largo almeno tre metri. Nelle orecchie, l’Unplugged degli Alice in Chains è la colonna sonora ideale per iniziare questa giornata milanese.

I minuti scorrono rapidi e apatici al ritmo delle pedalate e l’ossigeno manca, ma non per lo sforzo. Nella mente, il miraggio di un luogo in cui respirare ed essere libero. Presto, gli alberi secolari interrompono la monotonia metropolitana, quasi come un’oasi in quel deserto in cui brancolano migliaia, milioni di persone.
Nella noiosa routine di ogni mattina, quei giardini rappresentano una pausa in cui lasciarsi andare, come se la vista degli alberi, dell’acqua e delle roccette tra i palazzi fornissero un surrogato di quella natura in cui mi sono sempre sentito più in sintonia che con le persone, e che fin da subito è stata la spinta che mi ha portato a vivere l’arrampicata in tutta la sua profondità. 
Guardando quel conglomerato rivedo il muro di sassi della casa in cui vivevo a Sondrio e sui quali avevo mosso i miei primi incerti passi verticali; sento il profumo del negozio in cui compravo, uno dopo l’altro, i miei primi moschettoni e la palpabile morbidezza della magnesite sbriciolata per la prima volta nel sacchetto. È la freschezza del vetro a cui il mio naso stava incollato quando passando in macchina ammiravo sognante gli arrampicatori alle prese con le mediocri paretine della Sassella o mi immaginavo futuristiche vie sulla bastionata del lago. 
Ritrovare improvvisamente quell’entusiasmo è allo stesso tempo dolce ed amaro, un oscillare continuo tra sogni per il futuro e il non riuscire a sfuggire a quella sensazione di completa insofferenza alla società, che ha motivato la mia passione per la libertà e l’anticonformismo dell’arrampicata. La mente vaga agli anni dell’adolescenza, le prime arrampicate, lo sguardo a cercare pochi metri di roccia, un muro fatiscente di cemento fessurato o intonaco bucato, un qualunque pretesto per arrampicare, sognare e progettare con la curiosità mai sazia di chi, in fondo, non vuole smettere di giocare e immaginare come un bambino.
Sarà una particolare irritazione o forse stanchezza, ma oggi ho voglia di prendermela con calma e mi fermo sotto questo strapiombo aggettante sullo stagno, seguendo una linea che sembra interessante.
È lì che subito mi salta all’occhio una strana macchia scura nel mezzo dello strapiombo.

In ombra ed impolverato c’è un chiodo ormai arrugginito! Un chiodo piantato in mezzo a pochi metri di falsa roccia in centro a Milano!

La sorpresa è consolatrice e strappa il primo sorriso della giornata. In un contesto in cui tutto sta stretto ritrovare un simbolo che dimostra come anche altri abbiano avuto lo stesso entusiasmo e la stessa passione è un qualcosa che fa sentire in compagnia, ed è straordinario come un inanimato pezzo di ferro arrugginito in una finta roccia possa in realtà essere così vivo da comunicare emozioni e sentimenti. 
Eppure, riprendendo a pedalare diretto al lavoro, so che una giornata destinata ad essere dimenticata come troppe altre, in realtà resterà per sempre stampata nella mia mente, a causa di una delle tante sorprese che l’arrampicata ha saputo ancora regalarmi.

 Lo strapiombo chiodato dei Giardini di Porta Venezia


L’articolo completo su Up 2019: https://www.versantesud.it/shop/up-2019/



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