Neosassisti #1


Estratto dall’articolo Neosassisti – Un viaggio nell’Utopia…” pubblicato sull’Annuario di Alpinismo Europeo 2018 “Up 2019” edito da Versante Sud: https://www.versantesud.it/shop/up-2019/


Un qualche giorno, estate 1993: Non so cosa sto facendo, so solo che non riesco più a tornare giù. Le braccia sono gonfie, la roccia instabile mi dà l’impressione di doversi staccare da un momento all’altro mentre gli altri membri del gruppo stanno chiacchierando alla Grotta dei Pagani, ignari di cosa un tredicenne stia facendo a poche decine di metri da loro. Prendo coraggio e vado, sperando che il blocchetto su cui mi sto tenendo regga il mio peso. Arranco, tremo, ma alla fine mi ritrovo in un canalino meno ripido, da cui mi ricollego all’ultimo tratto della Normale, da cui sono disceso solo pochi minuti prima.
In realtà, non sono del tutto consapevole di quanto ho rischiato. Sono solo esaltato, elettrizzato, gioioso. L’unica cosa di cui mi rendo conto è che ho arrampicato, e nient’altro conta. L’inizio di una nuova vita.

Un qualche sabato sera, inverno 1996: Cado sui materassi lerci ed ammuffiti al 125° movimento del circuito, stravolto, esausto ed infreddolito nonostante gli infiniti giri su questo pannellino strapiombante di 2.4 x 2.4 metri nella cantina/garage della casa in cui vivo a Bergamo. Da due anni ho lasciato Sondrio e gli insegnamenti di Daniele Pigoni, il mio primo maestro. Daniele mi ha dato qualche indicazione per costruirmi un pannello casalingo e dopo mille suppliche, mio padre ha ceduto. In una domenica piovosa con il suo aiuto e quello di mio zio, tra cemento, tasselli, pannelli, trapani e seghetti è nato lo strumento con cui mi sarei allenato intensamente per almeno i successivi 10 anni. Mi sdraio sul materasso che puzza, umido e inospitale anche per gli acari, e penso ai miei compagni di classe seduti in qualche pub, intenti a cercare inutilmente di strappare una slinguatina a qualche coetanea, prima di spostarsi nel parchetto e finire la bottiglia di vodka comprata di nascosto. Non provo nessuna invidia né rimpianto. A scuola e con i ragazzi della mia età non mi sento a mio agio, non ho nulla da condividere e, in fondo in fondo, mi crogiolo nel sentirmi un estraneo. Sto meglio qui, al freddo, nella solitudine, nel silenzio e nella puzza di questa cantina, gratificato dalla stanchezza e dal tanfo delle scarpette luride, cercando di costruire movimento dopo movimento quel sogno su cui è incentrato ogni ambito della mia vita e che quasi nessuno attorno a me riesce a capire. Mi preparo per un ultimo giro. Dopo salirò in casa, dove mi attendono le 10 serie di trazioni alla sbarra che ogni giorno, Natale e Capodanno inclusi, servono più che altro a placare il senso di colpa del non essersi allenato a sufficienza. Dovrò anche studiare e fare i compiti. Me ne renderò conto solo diversi anni dopo, ma studiare in realtà mi appassiona molto e non ho difficoltà a farlo. Per questo al liceo ho ottimi risultati, anche se al momento sono convinto che la mia motivazione nasca solo dalla necessità di non prendere brutti voti, che altrimenti comporterebbero una punizione assolutamente insopportabile: niente arrampicata per un po’... Dopo una doccia finalmente è l’ora del letto, immaginandosi di risvegliarsi il giorno dopo per andare a scalare su roccia. Non sarà così. Ci vorrà ancora qualche mese prima di conoscere quegli amici che diventeranno compagni di scalata per tutto l’anno, oltre persone fondamentali nella mia vita. Per ora, l’unica possibilità di arrampicare su roccia è d’estate, quando finita la scuola prendo lo scooter e emigro a Castione per un paio di mesi. Qui mi aspettano il Pinky e qualcun’altro, pronti ad avventure verticali che ci fanno rimbalzare dalla Valle dei Mulini alla Corna Rossa di Lantana, dai tetti di Onore alle prime esperienze in Presolana, ma anche sui sentieri di molte escursioni e qualche esperienza in alta montagna. Sono due mesi di vita intensa, unica e felice, che viene interrotta non appena arriva il momento del ritorno a Bergamo in scooter. Quel giorno, appena partito da Bratto per tornare alla vita di tutti gli altri giorni, piango sotto la visiera del casco.

Novembre 2000: Non so cosa aspettarmi da questa giornata di pioggia. È un’avventura nuova e voglio viverla da solo. Sono stati anni intensi, tanti amici arrampicatori sono entrati nella mia vita, ho scalato sempre di più, le mie capacità sono rapidamente aumentate così come i gradi che sono riuscito a salire. Senza nemmeno accorgermi sono entrato in un circolo vizioso in cui ogni magia si è gradualmente spenta. Ogni entusiasmo, ogni esplorazione si sono perse nella sterile ricerca di una prestazione che serve più che altro a sentirsi forte agli occhi degli altri. L’estate di quest’anno ne è stata il simbolo: anonime giornate passate solo a tentare invano “La morte nera”, per ottenerne una delusione ancora più bruciante delle dita spellate dai tentativi. Ma soprattutto la presa di consapevolezza di aver perso qualcosa: la forza di volontà, la creatività e la gioia che solo l’arrampicata sapeva darmi non ci sono più.
Forse è per questo che sono qui ora, per ritrovare qualcosa di fondamentale senza il quale mi sento inquieto e incompleto. Dalla fine dell’estate penso a Valbondione. Massimo mi ha più volte incitato ad andarci…Qualche passaggio storico del Gigante Savonitto, qualcun’altro suo, ma per il resto quasi tutto scoprire. Eccomi qui pronto.
Una blanda ed impalpabile pioggia autunnale cade dalle nuvole che nascondono le montagne intorno e sulla schiena si affloscia una specie di materassino di dubbia utilità. Dispersi in soffitta ho trovato delle strisce simili a gommapiuma compatta, che le abili mani della nonna hanno avvolto e cucito in un telo semi-impermeabile al quale ho collegato una fettuccia per il trasporto. Un primo artigianalissimo quanto inefficace crash pad, che non verrà mai testato. È tutto bagnato, ma non importa.
Scendo lungo il sentiero che dalla strada porta al fiume. Oltre il ponticello, diversi massi in vista, nel prato. Sopra alcuni di essi frecce in vernice marchiano antichi passaggi, ma oltre si spalanca un sogno scritto nella roccia. Ovunque massi vergini…nel prato, sul pendio, nella pietraia e nel boschetto. Ovunque linee da salire, da tracciare, da creare. Un ulteriore sguardo al di là del fiume lascia intravedere qualcosa, e pochi minuti dopo scopro la radura, con le sue linee immacolate. Rinascita.

Devo aspettare altri tre mesi per tornare: ho finito gli esami del primo semestre e ho qualche giorno prima di iniziare il secondo con il suo “avanti e indietro” da Milano. A Valbondione ha nevicato e ogni masso è coperto da almeno una spanna di neve. Io e Flavio ci facciamo strada verso la radura per vedere se c’è qualcosa di arrampicabile. Pochi giorni prima abbiamo fatto boulder per la prima volta in Valtellina, scortati dal Pavaz che entusiasta ci ha guidato sui blocchi che ha scoperto sopra Morbegno. Spero che Flavio sia abbastanza gratificato da quello che ho trovato qui e che tanto gli ho celebrato negli ultimi mesi.
Neve su tutti i sassi. Fa niente. La spazzola la rimuove quanto possibile per poi togliere il vestito muschioso di questa bellissima linea nella radura. Il magnesio cerca di asciugare l’uscita su piatti e la roccia ci rigetta di continuo a terra, ma infine con un ristabilimento su ghiaccio nasce “Primo Svaso”, il nostro primo blocco a Valbond e la mia prima “first ascent” nella vita! Il sole illumina l’altro lato del fiume dove ci dirigiamo subito per ripetere i passaggi storici sul masso nel prato. Tempo un paio d’ore e con i raggi del sole che rimbalzano sulla neve eccoci a salire a petto nudo tutto ciò che troviamo…vivaci come bambini curiosi.
Il primo giorno di boulder a Valbondione, in una lunga serie che si è protratta ininterrottamente per almeno i successivi 5 anni. Paolo si unì immediatamente a noi, creando un trio di amici fraterni, che hanno visto crescere e fortificare il loro legame proprio tra questi massi, sui quali ci inventavamo le linee che sarebbero diventate i grandi classici di Valbond.
Da soli o in gruppo, estate o inverno Valbondione divenne il microcosmo che alimentava la nostra passione e la nostra vita di arrampicatori; e ci vedeva crescere. Giornate solitarie e tristi per curarsi con un po’ di boulder; giornate concentrate a tentare qualche progetto con il sostegno di amici veri; giornate goliardiche a divertirsi in compagnia e a inventarsi qualche cazzata da fare…L’arrampicata ritornò ad essere solo quella spinta propulsiva per condurre un’esistenza ben più profonda, ricca di esperienze ed emozioni, in cui ogni boulder liberato non è solo un numero da aggiungere alla lista, ma una fotografia impressa nella roccia: momenti, persone, sensazioni indimenticabili, che da soli giustificano ciò che tuttora mi spinge ad arrampicare.


Primavera 2018: Anche oggi piove, e sono di nuovo solo a vagare tra i boschi. Per due volte ho rifatto avanti e indietro il sentiero che sale oltre il villaggio, seguendo tutte le tracce che ho trovato. Jodi mi ha detto che c’erano alcuni massi molto promettenti ai margini di un pratone ma per ora non ho trovato nulla di rilevante. A parte un paio di caprioli che pascolano in un prato non c’è nessuno, e anche le caratteristiche baite ristrutturate sono silenziose. Qualche tuono si fa sentire per la prima volta quest’anno, preludio all’estate in arrivo, e forse è meglio se mi avvio verso casa prima di essere investito dalla tempesta.
Non ho trovato nulla stavolta, ma il mio obiettivo principale è solo quello di cercare, non necessariamente trovare. Ho esplorato boschi e sentieri sconosciuti, ho scoperto un altro pezzo di mondo dietro a casa vivendo una nuova micro-avventura e mai come in giornata come queste, senza roccia da stringere, mi sento maggiormente un arrampicatore.
Sono passati quasi vent’anni da quando ho scoperto il boulder, venticinque da quando ho scalato quella mia prima volta in Presolana, e ancora di più da quando si è risvegliato quell’istinto che mi ha portato a cercare me stesso nell’immersione nella natura. In fondo mi rendo conto che è questo il motivo più profondo per cui arrampico e l’arrampicata stessa non è stata che una delle molteplici forma con cui questo istinto si sarebbe potuto concretizzare.
Abbandono il villaggio ritornando sui miei passi e intanto ripenso un po’ a questi anni. Infinite immagini. Innumerevoli luoghi, persone ed esperienze. Dalle esplorazioni di Valbondione alle giornate in Ticino, in Valle, a Bleau, in innumerevoli altre aree italiane, europee e non solo; dalle spazzolate frenetiche e le prime salite di linee vergini alle ripetizioni di blocchi noti in aree famose; dalle solitarie sedute di allenamento agli anni di gare in giro per l’Italia…I diversi modi di vivere ed intendere il boulder sono andati a braccetto con lo scorrere della vita adulta, con i suoi cambiamenti e i suoi eventi belli e brutti. Eppure il filo conduttore di qualunque cosa è sempre stato proprio il desiderio di esplorazione, la ricerca di una via individuale ed originale, che nell’arrampicata si manifesta con quell’impulso creativo senza il quale sarebbe solo uno sport come tanti altri. Qualcosa però è cambiato nuovamente. Negli anni in cui ho scoperto questa disciplina mi sentivo estraneo al mondo “convenzionale”, con tutte le sue stupide banalità e stereotipi. Arrampicare diventò un’occasione di espressione personale. Ora, la sensazione di estraneità si estende anche al mondo verticale, dove la banalità dell’omologazione si diffonde a macchia d’olio e ogni istinto realmente creativo passa in secondo piano rispetto all’esigenza dell’apparire, anche quando non c’è nessuna sostanza a supportarlo.
Come allora, non resta che continuare a cercare altrove la propria dimensione.
È la prima volta che percorro questo breve tratto di Strada Regia, perso nei miei pensieri. Improvvisamente, i blocchi compaiono ai lati del sentiero e mi riportano al momento presente. Niente di eccelso, ma qualche linea carina si lascia intravedere sotto il muschio e il fianco la montagna sembra promettere altre possibilità nascoste. Cinquanta metri più avanti mi riconnetto ad un sentiero che ho già percorso molte volte durante le mie esplorazioni. Scuoto la testa e sorrido mentre ridiscendo il sentiero che in breve mi riporta al castello e dopo a casa.
Ancora un’ennesima conferma…ancora qualcosa che mi ricorda che per vivere l’essenza dell’arrampicata non serve necessariamente ricercarne un senso chissà dove. Ogni vero viaggio, vicino o lontano, parte innanzitutto da noi stessi, nella nostra individualità e nella capacità di trovare la magia là dove gli altri sono ciechi. Solo questo è necessario per scrivere storie entusiasmanti e sempre nuove, che mai vedranno la parola fine…anche se forse saremo solo noi a rileggerle e a ricordarle.



L’articolo completo su Up 2019: https://www.versantesud.it/shop/up-2019/


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